L’Accademia della Crusca rimprovera i nostri politici sull’utilizzo del termine stepchild adoption.
Sono giorni caldi per il parlamento italiano che è chiamato a decidere in merito alla Stepchild adoption, contenuta nel DDL Cirinnà. Ma che cos’è la Stepchild adotpion? Questo termine, di origine anglofona, viene utilizzato dai nostri politici, anche se non tutti sono in grado di pronunciarlo, per descrivere l’adozione del figlio del coniuge nelle coppie omosessuali. Ma aldilà delle polemiche politiche riguardo la legge, è nata anche una polemica con l’Accademia della Crusca per l’utilizzo di questo termine che secondo gli studiosi è semanticamente non idoneo. L’Accademia della Crusca, che è la più antica accademia linguistica del mondo formatasi nel 1583, ha il compito di mantenere pura la lingua italiana, che troppo spesso è messa a dura prova da termini di provenienza straniera. Proprio per monitorare i neologismi e forestierismi incipienti, sempre più presenti nel nostro linguaggio quotidiano, è sorto il gruppo Incipit, che ha la peculiarità di vigilare su questi termini prima che prendano piede nel linguaggio di uso comune. Il presidente onorario dell’Accademia della Crusca, Francesco Sabatini, ha più volte spiegato come l’anglismo “stepchild adoption” è improponibile, e che il giusto termine che dovrebbe essere utilizzato è “l’adozione del figlio del partner”, anche se pure la parola partner non è che sia proprio adeguata, sarebbe meglio dire “l’adozione del configlio”. Un’altra battaglia che l’Accademia sta combattendo è contro gli “hot spots”, termine che ha delle attinenze semantiche con delle parole che se tradotte nella nostra lingua creerebbero solo confusione. Da qui il monito del gruppo Incipit che chiede che gli “hot spots” vengano chiamati più semplicemente “Centri di identificazione”, termine che avrebbe una più forte connessione semantica con il significato del termine. E’ importante quindi constatare come l’ Accademia della Crusca vigili ancora sul nostro linguaggio, ricordandoci che possiamo tranquillamente utilizzare la nostra lingua senza dover prendere in prestito da nessuno neologismi che centrano poco e nulla con il nostro linguaggio, e allora credo sia giusto e doveroso chiudere con le parole di Miguel de Cervantes: «Mi sembra che tradurre da una lingua ad un’altra, se non è dalle regine delle lingue, la greca e la latina, sia come guardare gli arazzi andalusi dal rovescio: anche se si vedono le figure, sono piene di fili che le rendono confuse, venendo a mancare la levigatezza e la nitidezza del diritto.»
Articolo di Cristiano Morelli