Cittadinanza transitiva. Il nuovo di libro di Massimo Canevacci

La Mia Libreria mercoledi 29 gennaio ore 18,30

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La Mia Libreria

mercoledi 29 gennaio ore 18,30

il professor

MASSIMO CANEVACCI

presenta

CITTADINANZA TRANSITIVA

Interviene con l’autore la scrittrice

Roberta Yasmine Catalano

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Per una cittadinanza transitiva che rende liberi

A leggere il termine transitivo, la prima immagine che mi è balzata alla mente è stata quella grammaticale: il verbo che transita dal soggetto all’oggetto, e lo fa senza ostacoli, perché non ha bisogno di preposizioni. Niente stampelle insomma, è un viaggio diretto, lineare. Tutto sommato, non è un’idea così fuori strada rispetto a questo nuovo lavoro dell’antropologo Massimo Canevacci, dove a transitare è la cittadinanza.Ma attenzione: anche qui, come quando un anno fa ci aveva portato tra le popolazioni indigene del Brasile  [1]  l’autore ci accompagna in un viaggio che è ben lungi da quello che immaginavamo.

Di primo acchito si potrebbe pensare a una questione che riguardi gli apolidi, coloro cioè che sono incastrati in una terra di mezzo a cui non corrisponde alcun passaporto. E invece sin dalla prima pagina viene chiarito che il soggetto qui è quello diasporico: “questi rappresenta una tendenza sempre più determinante quanto diversificata, in quanto non si esaurisce con le persone migranti, bensì avvolge qualsiasi soggetto che rifiuti di rimanere in un territorio identitario stabile , visto come oppressivo, tradizionale, inadeguato, autoritario, illiberale, patriarcale, coloniale e via così”. In altre parole rappresenta tutti, perché ognuno di noi in questo senso è diasporico, e – in quanto tale – transitante, e in questo transitare i confini si sfaldano.

Questo libro è profondamente politico: in una realtà dove la cittadinanza è un problema mondiale, l’autore suggerisce come unica soluzione la cittadinanza transitiva da conferire al soggetto diasporico che non si lascia racchiudere e rinchiudere in confini territoriali e identificativi: traforare lo Stato a partire da tutti i soggetti in transito, dentro e fuori di sé.

Costellazione χ si illumina per insoddisfazione verso lo stato delle cose, perché le cose, ogni cosa, non ha stato bensì movimento”. È in quest’ottica che i soggetti migranti stanno mettendo in discussione la forma-stato così cara al mondo occidentale: “il soggetto diasporico non solo ha deciso di recidere i legami con la sua terra di origine, ma rifiuta di iscriversi a un qualsiasi stato -nazione, persino a quello dove è nato”. Eccola la sfida delle nuove diaspore, che impone un nuovo approccio legislativo per accompagnarle dal loro luogo di origine a uno non necessariamente definito territorialmente, e che molto probabilmente è plurale. Solo così “la diaspora può perdere quel tono doloroso e collettivo, per assumere l’accento inquieto e curioso del soggetto viaggiatore”.

Gli Xavante ei Bororo del Mato Grosso transitano tra il loro essere indigeni – con la loro cultura, i riti, le tradizioni – e il loro essere brasiliani, e in questa porosità identitaria sono sia indigeni che brasiliani. Questa doppia (o pluri) cittadinanza è del resto qualcosa che si applica a molti ambiti: come sostiene l’antropologo Pierre Clastres, “la fonte dell’infelicità è l’Uno”: uno Stato, un sesso, una famiglia.
Chiunque abbia vissuto attraversando più culture sa bene quanto sia soffocante doversi definire nei limiti di un’unica identità, dirsi appartenenti a un unico luogo, dover scegliere un unico campo: si rischia di non sceglierne nessuno, restando impigliati in una frontiera che appare mastodontica ma che non esiste.

Ognuno è alla ricerca di un transitare che possa offrire migliori condizioni di studio, ricerca, libertà, autonomia, esistenza”, e che talvolta si traduce nel viaggiare in un altro Stato, ma anche in un altro stato. Al soggetto che attraversa va riconosciuta la condizione di transito, perché a ogni città, a ogni tappa, cambia pelle e cittadinanza: non è forse ciò che facciamo tutti? A ogni spostamento di luogo o di pensiero approdiamo a un altro noi, una identità scontornata che è transeunte in quanto momentanea, titolare pertanto di un visto provvisorio: “sono concetti irregolari e indisciplinati che si immergono nei flussi di queste identità frantumate e libere: frantumate perché libere”. Edward Said stesso sostiene che “è impossibile nel XXI secolo recuperare credibilmente una singola identità”.

Come ama fare, Canevacci conferisce piena cittadinanza a nomi di disciplina, attribuendo loro nuova dignità. Ecco quindi che Etnografia, Filosofia e Antropologia non necessitano di articoli perché sono anch’essi personaggi a pieno titolo e in pieno transito, in un gioco di specchi molto indisciplinato e, quindi, terribilmente entusiasmante.


Scorniciare, scontornare, rimodellare ancora e ancora, come fanno i bambini con tanti pezzetti di pongo, è così che l’autore costruisce e decostruisce, smonta e rimonta, in una continua messa in discussione dei confini e delle convenzioni: “collezionare frammenti e infilarli in una collana di semi concettuali indefiniti è metafora della mia ossessione etnografica: intravedere il movimento della costellazione, fissarlo, salirci su, viaggiare, viaggiarsi e infine discendere”.

Imparare a disorientarsi”, è questa la via de seguire, imparare a perdersi in un’idea, un contesto, una via, come a São Paolo lungo l’amata “Rua Augusta, la mia maestra, [che] mi ha spinto a diventare trovatore, vagabondo flaneur, perdita di giorno, uomo della folla”. Ma imparare a perdersi significa anche imparare a lasciare andare, a spogliarsi di cose familiari, note, sicure: “perdersi è la premessa per trovare nuove vie a Marsiglia oa Napoli. Altrimenti siamo condannati a rifare per tutta la vita sempre e solo la stessa strada”.


L’autore ha vissuto in più luoghi e conosce quel non appartenere a nessuno di essi, quel transitare in uno senza mai lasciare davvero l’altro: lo dice bene quando descrive il suo “tornare a casa senza mai poter abbandonare l’ aldeia ”, e tuttavia “essere ubiquo rimane esperienza liberatrice proprio nella sua confusione”. Chi, come lui, ha una storia di attraversamenti continui, sa bene che in quel vagare si spostano anche gli oggetti che sono testimoni della persona che si era prima, quella di quell’altra riva, e così tra un trasloco e un altro si ha l’insopprimibile necessità di portarsi dietro schegge di un altrove: “la sera guardavo i miei tesori, pezzi di me, libri, statuine, cartelle”, ma possono essere anche saponette, scatole di fiammiferi, barattoli di caffè, gusci di noce, perché il viaggiante “insieme a ‘loro’ (i cosiddetti ‘oggetti’) trasloca anche parti della sua persona da tempo avvolta nelle ‘loro’ esistenze e alla connessa diaspora”.

Come si diceva all’inizio, a transitare in questo testo non è solo il viaggiatore in senso lato. Il concetto di cittadinanza transitiva si posa su lidi inaspettati. Andando sempre più a fondo nella terra della molteplicità, incontriamo persino Ricardo Reis, eteronimo di Fernando Pessoa, a ricordarci che “solo essendo multipli (…) staremo con la verità e soli”. E qui inizia la vertigine, bellissima. In un capitolo dedicato, eteronomie (dipendenza da leggi esterne e straniere) qui e là divengono eteronimie (che sono libertà, indipendenza dall’ortonimo monolitico), ed è liberazione, è magnifica “polifonia dell’io che trasborda nelle diverse scritture”. Pessoa ne è il più alto rappresentante, lui che schiantandosi contro la sua dolorosa inquietudine si infrange in mille pessoas , divenendo uno splendido prisma che rifrange voci e versi plurimi.


Ma chi di noi può non dirsi plurale? Siamo tutti soggetto e oggetto, siamo uno e tanti, in una sola – e talvolta solitaria – moltitudine. Infatti, “se l’atomo è divisibile, anche l’individuo non è più costretto a rimanere legato alla sua matrice filologica ‘atomica’. Allora pure il soggetto può manifestare tendenze dividuali , in cui il prefisso ‘in’ viene sottratto al suo potere negativo per disegnare possibilità divisive o moltiplicative del soggetto-dividuale”. Insomma, i soggetti sono diasporici, le identità ubique e polifoniche, il dividuo è eteronimo, io è anche ‘ii’.

In questa pluralità si inscrive anche il genere, anzi i generi, che sono per loro natura transitivi, infiniti, svincolati, diremmo oggi fluidi: “la mia scelta per accompagnare le identità transitiva si svolge lungo un’ antropologia ottica che ha un genere poliamoroso in quanto si plasma instancabilmente sulla potenza erotica e cognitiva dell’occhio”, perché “il sesso è genitale e l’eros è polimorfo”.
Insomma, anche il genere ha diritto di cittadinanza in quanto transitante: transgender, transessuale. Trans, che va al di là, oltre.


Questo testo è un elogio dello smarrirsi, un abbandono alla polifonia delle emozioni. Dicevamo della personificazione delle discipline, ebbene Canevacci si spinge più in là: come con Pigneto, i luoghi si fanno esseri molteplici e si spostano con lui, in un gioco seducente e fascinoso, ed è una dichiarazione d’amore, mai monogamica: “ Avenida Paulista scorre come una persona attraversata da tante identità. Lei diventò parte di me con il suo citato incrocio con Rua Augusta , mia regina e maestra tra tutte le strade. L’ho adorata fin dall’inizio l’Augusta, come un grande amore e l’ho percorsa a piedi in ogni orario possibile, l’ho vissuta con lo stupore dello straniero e con l’amore del familiare. Lei, la mia Augusta, donna e amante”. Una strada quindi non è più una mera strada, perché “quel transitare urbano mi fece sentire che persone erano e sono anche edifici, strade, alberi”.

Transitano i luoghi in persone, transitano le persone da un luogo all’altro, accorgendosi che solo allontanandosi dall’uno si può vedere e comprendere l’altro, transita il noto verso l’ignoto, transita il ricercatore arreso allo stupore. “Lo svolgimento della costellazione concettuale si basa in gran parte sullo stupore, un metodo etnografico che dilata e attraversa il corpo poroso grazie all’incontro con lo sconosciuto, l’ignoto, lo straniero. Addestrare il corpo-mente all’incontro con l’ignoto è desiderio metodologico in quanto perturba il mio quadro teorico-emotivo di riferimento (…). Servire l’abbandono desiderante verso lo sconosciuto”. E serve lo stupore. Perché stupore è l’attimo prima, è una disposizione ad attendere un momento che sta per arrivare, forse. E in quell’attesa già si cambia, si transita, ci si sforma verso altro, ci si trans-forma. “Stupore apre i pori del soggetto per accogliere lo sconosciuto”, gli permette di attraversarlo, e l’attimo dopo di quell’attimo prima il soggetto non sarà già più lo stesso.


Tutto questo reclama piena cittadinanza. “Cittadinanza transitiva come l’io in transito, nel camminare, nello scrivere e nel sentirsi piacevolmente in eccesso”.

E, camminando, anche le amicizie di Canevacci viaggiano, dalle strade di asfalto di un’adolescenza romana a quelle sorprendenti brasiliane, fino a quelle sconnesse pignetine, “un paese metropolitano”, il suo.
L’impressione è che l’autore, attraverso questo lavoro, abbia voluto raccogliere le esperienze di tutta una vita, rivederle una a una in questa nuova prospettiva, e conferire loro, con solenne cerimonia, la cittadinanza transitiva.

A questo punto tenetevi forti: l’autore ci porta con sé in un viaggio folle e straordinario. Tutti a bordo del bus Marx 66, perché “è tempo e spazio di rimettere in moto l’autobus della critica. Immagino che alla guida del 66 ci sia Robert Walser, esperto di deambulazioni, mentre il bigliettaio è Walter Benjamin ( avanti c’è posto !) che non ama dirigere e che spesso si confonde con le strade ripetendo la sua frase preferita: ‘perdersi è cosa tutta da imparare’. Il controllore è Lévi-Strauss che analizza la validità strutturale dei biglietti verso questo triste rotta. Sui passeggeri non ho dubbi: dopo diversi seminari, confronti, discussioni, devono salire e pagare il biglietto architetti, filosofi e antropologi. Il tema da affrontare è evidente: seguendo Marx 66, da dentro, iniziare a vedere come sono cambiate le relazioni nelle metropoli contemporanee tra centro e periferia, poi magari a capirle. Nella mia immaginazione, Walser segue un’indicazione errata di Benjamin e, invece di arrivare al capolinea ‘marxista’, svicola per le stradine del Pigneto”. Suvvia, chi non vorrebbe salire su questo autobus pazzamente meraviglioso e perdercisi? Un autobus in viaggio, un autobus in fuga. Perché, ripercorrendo le parole di Beatriz Nascimento a proposito del Quilombo, “la fuga è il viaggio verso la libertà, è sulla via della fuga che si diventa liberi, non esiste un punto di partenza né un punto di arrivo, è l’eterno camminare della fuga che trasformerebbe i soggetti da una condizione di ‘prigionia’ reale o simbolica di essere colonizzato in esseri umani”.


Esseri umani. Cittadini transitivi. Liberi.

Roberta Yasmine Catalano

Cittadinanza transitiva. Il nuovo di libro di Massimo Canevacci ultima modifica: 2025-01-18T15:35:28+01:00 da Target Lab Ets