World Press Photo Exhibition 2022
Il 28 Aprile scorso si è aperta a Roma al Palazzo delle Esposizioni la mostra “World Press Photo 2022”, il concorso internazionale di fotogiornalismo che dal 1955 premia ogni anno i migliori fotografi professionisti.
A prescindere dai nomi dei vincitori delle singole aree tematiche, si tratta certamente di una raccolta di immagini di altissimo impatto mediatico che in parte abbiamo già visto nelle maggiori testate giornalistiche e nelle riviste specializzate come ad esempio National Geographic, ma poterle apprezzare tutte in un unico contesto come le grandi sale del Palazzo delle Esposizioni è effettivamente una esperienza unica. Il salone di ingresso si apre su un gigantesco pannello che mostra le copie di molte immagini vincitrici ben note, vere pietre miliari del fotogiornalismo come ad esempio quella scattata da Eddie Adams durante la guerra del Vietnam, nell’istante esatto dell’esecuzione di un Viet Cong oppure quelle di Charlie Cole a Tienanmen che mostra un ragazzo di fronte ad un carro armato dell’esercito cinese.
Tornando alle immagini in concorso credo sia meritatissimo il premio assegnato ad Amber Bracken (New York Times) per la foto che rappresenta degli abiti appesi a croci di legno realizzate in seguito al ritrovamento dei resti che si presume siano appartenute a bambini indigeni morti presso la Kamloops Indian Residential School, in British Columbia verso la fine del ‘900. Il premio World Press Photo Story of the Year, è invece stato vinto da Matthew Abbott per le immagini degli indigeni australiani e le loro pratiche adottate per preservare le foreste.
Non passano certo inosservate le foto del francese Guillaume Herbaut di Agence VU che documenta gli scontri già in atto nel 2013 tra le milizie del governo ucraino e gli indipendentisti filorussi delle repubbliche di Donetsk e Luhansk, scontri che purtroppo daranno origine al conflitto di cui ormai conosciamo le conseguenze.
Davvero molto efficace, quasi un presepio, la foto notturna della palestinese Fatima Shabair in un campo profughi. Curiose invece le foto del norvegese Jonas Bendiksen che realizza un progetto documentaristico sulle “fake news” a Veles in Macedonia rivelando successivamente che le persone ritratte sono semplicemente dei modelli realizzati al computer.
Ma sono in mostra molte altre foto relative a fatti recenti tra cui l’assalto dei fedelissimi di Donald Trump alla Casa Bianca dopo la sconfitta elettorale o quelle bellissime della foresta amazzonica di Lalo de Almeida (Brasile) o il reportage in Equador, presentato a video, dalla fotografa Isadora Romero.
© Massimo Scafati – Target Lab Ets
Oggi questa mostra mi ha lasciata un po’ distaccata, eppure c’erano molte foto interessanti… non so, forse la colpa di questa emozione mancata è da imputare a Photoshop che imperversa sempre di più nei Reportage o Progetti (come sembra vengano anche chiamati) e che mi ha veramente un po’ stancata.
In realtà mi piacerebbe tornare ad una fotografia molto più sobria, scarna (forse anche solo in bianco e nero) perché questa manipolazione estremizzata, soprattutto nei reportage di guerra, non la vedo di buon occhio. Si tratta certamente di una critica più riferita allo stile che al contenuto sostanziale delle fotografie. Credo che non sia un problema da sottovalutare perché se il reportage deve riflettere la realtà io mi sento “disturbata” quando la post produzione troppo spinta rende “finte” le foto.
Bisogna stare attenti a quella linea di demarcazione tra realtà e finzione perché non siamo nell’ambito della fotografia creativa in cui tutto è permesso.
Non vorrei comunque essere fraintesa, non sto dicendo che Photoshop non debba essere utilizzato, ma vorrei che ci fosse un po’ più di moderazione e si seguisse un po’ di più la via “tradizionale” per non scivolare a volte addirittura nel ridicolo.
© Mari Lenetta – Target Lab Ets
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